XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A – Mt 13,1-23 – Il Seminatore

a cura di Giovanna Busolini

(Sottolineature, grassetti e note sono i miei. Immagini tratte dal WEB.)

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Prima Lettura

La pioggia fa germogliare la terra.

Dal libro del profeta Isaìa
Is 55,10-11

Così dice il Signore: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».

 Salmo Responsoriale

Dal Sal 64 (65)

R. Tu visiti la terra, Signore, e benedici i suoi germogli.

Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini. R.

Così prepari la terra:
ne irrìghi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge e benedici i suoi germogli. R.

Coroni l’anno con i tuoi benefici,
i tuoi solchi stillano abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza. R.

I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di messi:
gridano e cantano di gioia! R.

Seconda Lettura

L’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Rm 8,18-23Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità, non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta, nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.Vangelo

Il seminatore uscì a seminare.

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,1-23

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca! Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

Carissimi,

il Vangelo di Matteo di domenica prossima ci riporta la famosa parabola del Seminatore. 

Qui di seguito troverete, come al solito, anche il testo valtortiano che ci riporta questa parabola, ma non solo, perché Gesù, dopo essere rientrato nella casa che l’ospita, dà un’ulteriore e stupenda spiegazione della stessa ai Suoi Apostoli.  

Vi prego di notare anche questo paragrafo che spiega l’Infallibilità di Pietro e dei Suoi Successori. «[…] Solo Dio disvela Se stesso. Quando la sua luce si ritrae, terminato il suo scopo di illuminare il mistero, l’incapacità di intendere fascia, come le bende di una mummia, la regale verità della parola ricevuta. Per questo Io ti ho detto stamane: “Verrà un giorno che ritroverai tutto quanto ti ho dato”. Ora non puoi ritenere. Ma dopo la luce verrà su te, e non per un attimo ma per un inseparabile connubio dello Spirito eterno col tuo, onde infallibile sarà il tuo ammaestramento in ciò che è cosa del Regno di Dio. E, così come in te, nei tuoi successori, se vivranno di Dio come di unico pane

Quindi se un Papa non vivrà di Dio come di unico pane (secondo i testi valtortiani) anche la sua infallibilità sarà messa a rischio…

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato. [179.1-9] – ed. CEV

1Mi dice Gesù mostrandomi il corso del Giordano, meglio, lo sbocco del Giordano nel lago di Tiberiade, là dove è stesa la città di Betsaida sulla riva destra del fiume, rispetto a chi guarda il nord: «Ora la città non sembra più sulle rive del lago, ma un poco in dentro nel retroterra. E ciò sconcerta gli studio­si. La spiegazione si deve cercare nell’interramento del lago da questa parte, dovuto a venti secoli di terriccio depositato dal fiume e ad alluvioni e frane scese dai colli di Betsaida. Allora la città era proprio all’imbocco del fiume nel lago, e anzi le barche più piccole, e nelle stagioni più ricche d’acque, risali­vano per un buon tratto, fino a quasi l’altezza di Corozim, il fiume stesso, che serviva però sempre da porto e ricovero sulle sue rive alle barche di Betsaida nei giorni di burrasca del lago. Questo non per te, alla quale poco importa, ma per i dottori difficili. E ora va’ avanti».

2Le barche degli apostoli, fatto il breve tratto di lago che se­para Cafarnao da Betsaida, ammarrano in questa città. Ma al­tre barche le hanno seguite e molti ne smontano unendosi su­bito a quelli di Betsaida venuti a salutare il Maestro, che entra nella casa di Pietro dove… è da capo la moglie, che suppongo abbia preferito la solitudine al vivere fra i continui lagni della madre verso suo marito.

La gente, fuori, reclama a gran voce il Maestro, cosa che fa inquietare non poco Pietro, che sale sulla terrazza e arringa cittadini o meno, dicendo che ci vuole rispetto ed educazione. Lui, il suo Maestro, se lo vorrebbe godere un poco in pace, ora che l’ha nella sua casa, e invece non ha tempo e soddisfazione di offrirgli neppure un poco di acqua e miele fra le molte cose che ha detto alla moglie di portare, e brontola.

Gesù lo guarda sorridendo e crolla il capo dicendo: «Sem­bra che tu non mi veda mai e che sia un caso essere insieme!».

«Ma è così! Quando siamo per il mondo siamo forse io e Te? Nemmeno per sogno! Fra Te e me c’è il mondo coi suoi malati, coi suoi afflitti, coi suoi ascoltatori, coi suoi curiosi, coi suoi calunniatori, coi suoi nemici, e noi non siamo mai io e Te. Qui invece Tu sei con me, in casa mia, e dovrebbero capirlo!».

È proprio inquieto.

«Ma non vedo diversità, Simone. Il mio amore è uguale, la mia parola è la stessa. Che Io te la dica a te in privato, o che la dica per tutti, non è lo stesso?».

3Pietro confessa allora la sua grande pena: «È che io sono zuccone e mi distraggo con facilità. Quando Tu parli su una piazza, su un monte, fra tanta folla, io, non so perché, capisco tutto, ma poi non ricordo nulla. L’ho detto anche ai compagni e mi hanno dato ragione. Gli altri, voglio dire il popolo che ti ascolta, ti capisce e ricorda quello che dici. Quante volte ab­biamo sentito confessare da uno: “Non ho più fatto questo per­ché Tu lo hai detto”, oppure: “Sono venuto perché una volta ti ho sentito dire quest’altro e mi ha ferito il pensiero”. Noi inve­ce… uhm! è come un corso d’acqua che passa e non si ferma. La sponda non l’ha più quell’acqua che è passata. Ne viene dell’altra, sì, sempre altra, e sempre tanta. Ma passa, passa, passa… E io penso con terrore che, se come Tu dici sarà, che verrà il momento che Tu non sarai più a fare la parte del fiume e… e io… Che avrò da dare a chi ha sete, se non serbo neppure una goccia del tanto che mi dai?».

Anche gli altri appoggiano i lamenti di Pietro, lamentando­si di non ritrovare mai niente di tutto quello che sentono, quando vorrebbero trovarlo per rispondere ai molti che li in­terrogano.

Gesù sorride e risponde: «Ma non mi pare. La gente è molto contenta anche di voi…».

«Oh! sì! Per quello che facciamo! Farti largo, e dare delle gomitate per questo, portare i malati, raccogliere gli oboli, e dire: “Sì, il Maestro è quello!”. Bella roba, in verità!».

«Non ti denigrare troppo, Simone».

«Non mi denigro. Mi conosco».

«È la più difficile delle sapienze. Ma Io ti voglio levare que­sta grande paura. Quando Io ho parlato, e voi non avete potuto tutto comprendere e ritenere, domandate senza timore di ap­parire noiosi o di sconfortarmi. Abbiamo sempre delle ore di intimità. In queste apritemi il cuore. Do tanto a tanti. E che non darei a voi che amo come più non potrebbe Iddio? Hai parlato di onda che va e nulla resta alla riva. Verrà un giorno in cui ti accorgerai che ogni onda ti ha deposto un seme, e che ogni seme ha fatto pianta. Ti troverai davanti fiori e piante per tutti i casi, ti stupirai di te stesso dicendo: “Ma che mi ha fatto il Signore?”, perché tu allora sarai redento dalla schiavitù del peccato e le tue virtù attuali si saranno perfezionate a grande altezza».

«Tu lo dici, Signore, ed io mi riposo in questa tua parola».

4«Ora andiamo da chi ci attende. Venite. Pace a te, donna. Sarò tuo ospite questa sera».

Escono e Gesù si dirige al lago per non essere oppresso dal­la calca. Pietro è sollecito a staccare la barca di pochi metri dalla riva di modo che la voce di Gesù sia udita da tutti, ma che uno spazio sia fra Lui e gli ascoltatori.

«Da Cafarnao a qua Io ho pensato quale parola dirvi. E ho trovato indicazione nei fatti del mattino.

Voi avete visto tre uomini venire a Me. L’uno spontanea­mente, l’altro perché da Me sollecitato, il terzo per subito en­tusiasmo. E avete anche visto che, di questi, due soli Io ne ho presi. Perché? Ho forse visto nel terzo un traditore? No, in ve­rità. Ma un impreparato. All’apparenza pareva più imprepara­to questo che ora è al mio fianco, diretto prima a seppellire suo padre. Invece il più impreparato era il terzo. Questo era tanto preparato, a sua stessa insaputa, che ha saputo compiere un ben eroico sacrificio.

L’eroismo nel seguire Iddio è sempre prova di forte prepara­zione spirituale. Questo spiega certi sorprendenti fatti che av­vengono intorno a Me. I più preparati a ricevere il Cristo, qua­le che sia la loro casta e la loro cultura, vengono a Me con una prontezza e una fede assoluta. I meno preparati mi osservano come un uomo che esce dal consueto, oppure mi studiano con diffidenza e curiosità, oppure ancora mi attaccano e mi deni­grano accusandomi in vari modi. Le diverse maniere di agire sono in proporzione della impreparazione degli spiriti.

Nel popolo eletto si dovrebbero trovare da per tutto spiriti pronti a ricevere questo Messia nella cui attesa si sono consu­mati d’ansia i Patriarchi e i Profeti, questo Messia venuto finalmente, preceduto e accompagnato da tutti i segni profetiz­zati, questo Messia la cui figura spirituale si delinea sempre più chiara attraverso i miracoli visibili sulle membra e sugli elementi, e i miracoli invisibili sulle coscienze che si convertono e sui gentili che si volgono al Dio vero. Invece così non è. E la prontezza nel seguire il Messia è fortemente ostacolata pro­prio nei figli di questo popolo e, doloroso a dirsi, lo è tanto più quanto più si sale nelle classi più alte di esso. Non dico questo per scandalizzarvi. È per indurvi a pregare ed a riflettere.

Perché avviene questo? Perché i gentili e i peccatori fanno più strada sulla via mia? Perché essi accolgono quanto Io dico, e gli altri no? Perché i figli d’Israele sono ancorati, anzi, sono incrostati come ostriche perlifere al banco su cui sono nate. Perché sono saturati, ricolmati, obesi della loro sapienza, e non sanno fare largo alla mia col gettare il superfluo per fare posto al necessario. Gli altri non hanno questa schiavitù. Sono poveri pagani, o poveri peccatori, disancorati come nave alla deri­va, sono dei poveri che non hanno tesori propri ma solo fardel­li di errori o di peccati, dei quali si spogliano con gioia non ap­pena riescono a comprendere cosa è la Buona Novella e sento­no il suo miele corroborante ben diverso dal disgustoso miscu­glio dei loro peccati.

5Udite, e forse capirete meglio come possono esservi diversi frutti ad una stessa opera.

Un seminatore andò a seminare. I suoi campi erano molti e di diversa razza. Ce ne erano alcuni che egli aveva ereditati dal padre, sui quali la sua sbadataggine aveva lasciato proliferare piante spinose. Altri erano un suo acquisto, li aveva comperati così come erano da un negligente e tali li aveva lasciati. Altri ancora erano stati intersecati da strade, perché l’uomo era un grande comodista e non voleva fare molta strada per andare da un luogo all’altro. Infine ce ne erano alcuni, i più prossimi alla casa, sui quali egli aveva vegliato per avere un aspetto piace­vole davanti alla dimora. Questi erano ben mondi di sassaia, di spine, di gramigne e così via.

L’uomo dunque prese il suo sacchetto di grano da seme, il migliore dei grani, e iniziò la semina. Il seme cadde nel buon terreno soffice, arato, mondato, concimato dei campi prossimi alla casa. Cadde nei campi intersecati da vie e viette, che li spezzettavano tutti portando inoltre bruttura di polvere arida sulla terra fertile. Altro seme cadde sui campi dove l’inettitu­dine dell’uomo aveva lasciato proliferare le piante spinose. Ora l’aratro le aveva travolte, pareva non ci fossero più, ma c’era­no, perché solo il fuoco, la radicale distruzione delle male piante, impedisce il loro rinascere. L’ultimo seme cadde sui campi comperati da poco e che egli aveva lasciati così come erano, senza dissodarli in profondità e mondarli da tutte le pietre sprofondate nel suolo a fare un pavimento duro sul qua­le non avevano presa le tenere radici. E poi, sparso tutto il suo seme, se ne tornò a casa e disse: “Oh! bene! Ora non c’è che da attendere la raccolta”.

6E si beava perché, col passare dei mesi, vedeva spuntare fit­to il grano nei campi davanti alla casa, e crescere… oh! che sof­fice tappeto! e spighire… oh! che mare! e imbiondire e cantare, battendo spiga a spiga, l’osanna al sole. L’uomo diceva: “Come questi campi, tutti! Prepariamo la falce e i granai. Quanto pa­ne! Quanto oro!”. E si beava… Segò il grano dei campi più vi­cini e poi passò a quelli ereditati dal padre, ma lasciati inselvatichire. E restò di stucco. Grano e grano era nato, perché i cam­pi erano buoni e la terra bonificata dal padre era grassa e ferti­le. Ma la sua stessa fertilità aveva agito anche sulle piante spi­nose, travolte ma non sterilite. Esse erano rinate ed avevano fatto un vero soffitto di ramaglie irte di rovi, attraverso le qua­li il grano non aveva potuto emergere che con le rare spighe ed era morto soffocato quasi tutto.

L’uomo disse: “Sono stato negligente in questo posto. Ma altrove non erano rovi, e andrà meglio”. E passò ai campi di recente acquisto. Il suo stupore crebbe in pena. Sottili, e ormai disseccate, foglie di grano giacevano come fieno secco sparse per ogni dove. Fieno secco. “Ma come? Ma come?”, gemeva l’uomo. “Eppure qui non sono spine! Eppure il grano era lo stesso! Eppure era nato folto e bello. Lo si vede dalle foglie ben formate e numerose. Perché allora tutto è morto senza fare spiga?”. E con dolore si dette a scavare il suolo per vedere se trovava nidi di talpe o altri flagelli. Insetti e roditori no, non ce ne erano. Ma quanti, quanti sassi! Una petraia! I campi erano letteralmente selciati da scaglie di pietra e la poca terra che li copriva era un inganno. Oh! se avesse approfondito l’aratro quando era tempo! Oh! se avesse scavato, prima di accettare quei campi e comperarli per buoni! Oh! se almeno, dopo lo sbaglio fatto di acquistare quanto gli veniva proposto senza persuadersi della sua bontà, li avesse resi buoni a fatica di re­ni! Ma ormai era tardi ed era inutile il rammarichìo.

L’uomo si alzò in piedi avvilito e andò ai campi intersecati di stradette per sua comodità… E si strappò le vesti dal dolore. Qui non c’era nulla, assolutamente nulla… La terra scura del campo era coperta da un leggero strato di polvere bianca… L’uomo si accasciò al suolo gemendo: “Ma qui perché? Qui non spine e non sassi perché questi sono campi nostri. L’avo, il pa­dre, io, li abbiamo sempre avuti e in lustri e lustri li abbiamo fatti fertili. Io vi ho aperto le strade, avrò levato del terreno al campo, ma ciò non può averlo fatto sterile così…”. Piangeva ancora quando ebbe risposta al suo dolore da un fitto sciame d’uccelli che si accanivano dai sentieri sul campo e da questo ai sentieri per cercare, cercare, cercare semi, semi, semi… Il campo, divenuto una rete di stradette sui bordi delle quali era caduto del grano, aveva attirato molti uccelli, e questi prima avevano mangiato il grano caduto sulla via e poi quello del campo, fino all’ultimo chicco.

Così il seme, uguale per tutti i campi, aveva dato dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta, dove il nulla. Chi ha orecchie da intendere intenda. Il seme è la Parola: uguale per tutti. I luoghi dove cade il seme: i vostri cuori. Ognuno appli­chi e comprenda. La pace sia con voi».

7E poi, rivolgendosi a Pietro, dice: «Risali finché puoi e poi ammarra dall’altro lato».

E mentre le due barche fanno poca via sul fiume per poi fermarsi presso la sponda, Gesù si siede chiedendo al discepolo novello: «Chi resta, ora, a casa tua?».

«Mia madre col fratello maggiore, sposato da cinque anni. Le sorelle sono sparse per la regione. Mio padre era molto buono. E mia madre lo piange desolatamente».

Il giovane si arresta bru­scamente, perché sente che un singhiozzo gli monta dal cuore.

Gesù lo afferra per una mano e dice: «Ho conosciuto Io pure questo dolore ed ho visto piangere mia Madre. Ti capisco per­ciò…».

Lo sfregare della barca sul greto fa sì che il discorso si interrompa per permettere di scendere a terra. Qui non sono più i colli bassi di Betsaida che quasi tuffano il muso nel lago, ma una pianura ricca di messi si stende da questa sponda, opposta a Betsaida, verso il nord.

«Andiamo a Meron?», chiede Pietro.

«No. Prendiamo questo sentiero fra i campi».

I campi, belli e ben tenuti, mostrano le spighe ancora tenere ma già formate; tutte alla stessa altezza, e col lieve ondeggiare che imprime loro il vento fresco che viene dal nord, sembrano un altro piccolo lago al quale fanno da vele gli alberi che si drizzano qua e là, pieni di zirli d’uccelli.

«Questi campi non sono come quelli della parabola», osser­va il cugino Giacomo.

«No, davvero! Gli uccelli non li hanno devastati, non ci so­no spine e non sassi. Un bel grano! Fra un mese sarà già bion­do… e fra due sarà pronto alla falce e al granaio», dice Giuda Iscariota.

«Maestro… io ti ricordo ciò che hai detto in casa mia. Tu hai parlato tanto bene. Ma io comincio ad avere nella testa delle nuvole scompigliate come quelle lassù…», dice Pietro.

«Questa sera te lo spiegherò. 8Ora siamo in vista di Corozim». E Gesù guarda fisso il neo discepolo, dicendo:

«A chi dà è dato. E l’avere non leva il merito del donativo. Conducimi al sepolcro vostro e alla casa di tua madre».

Il giovane si inginocchia baciando fra le lacrime la mano di Gesù.

«Alzati. Andiamo. Il mio spirito ha sentito il tuo pianto. Vo­glio fortificarti nell’eroismo con il mio amore».

«Mi aveva raccontato Isacco l’Adulto quanto Tu eri buono. Isacco, sai? Quello al quale Tu hai risanato la figlia. È stato il mio apostolo. Ma vedo che la tua bontà è ancora più grande di quanto mi era stato detto».

«Saluteremo anche l’Adulto per ringraziarlo di avermi dato un discepolo».

Corozim è raggiunta ed è proprio la casa di Isacco la prima che si trova. Il vecchio, che sta tornando in casa, quando vede il gruppo di Gesù coi suoi, e fra essi il giovane di Corozim, alza le braccia, col suo bastoncello in mano, e resta senza fiato, a bocca aperta. Gesù sorride e il suo sorriso rende voce al vec­chione.

«Dio ti benedica, Maestro! Ma come a me quest’onore?».

«Per dirti “grazie”».

«Ma di che, mio Dio? Io devo dirtela questa parola. Entra, entra. Oh! che dolore che mia figlia sia lontana per assistere la suocera! Perché si è sposata, lo sai? Tutte le benedizioni dopo che ti ho incontrato! Lei guarita, e subito dopo quel ricco pa­rente tornato da lontano, vedovo, con quei piccoli bisognosi di una madre… Oh! ma te le ho già dette queste cose! La mia te­sta è vecchia! Perdona».

«La tua testa è saggia e dimentica anche di gloriarsi del be­ne che fa per il suo Maestro. Dimenticarsi del bene fatto è sag­gezza. Dimostra umiltà e fiducia in Dio».

«Ma io… non saprei…».

«E questo discepolo non l’ho per te?».

«Oh!… Ma non ho fatto nulla, sai? Solo ho detto la verità… e sono contento che Elia sia con Te». Si volge a questo Elia e dice: «Tua madre, dopo il primo momento di stupore, ebbe ra­sciugato il pianto nel saperti del Maestro. Tuo padre ebbe un degno cordoglio, però. Da poco è nel sepolcro».

«E mio fratello?».

«Tace… Sai… gli è stato un po’ duro vederti assente… per il paese… Lui pensa ancora così…».

Il giovane si volge a Gesù: «Tu lo hai detto. Ma io non vorrei che egli fosse morto… Fa’ che divenga vivo come me, e al tuo servizio».

Gli altri non capiscono e guardano interrogativamente, ma Gesù risponde: «Non disperare e persevera».

Poi benedice Isac­co e se ne va, nonostante ogni pressione.

9Sostano prima presso il sepolcro chiuso e pregano. Poi, at­traverso un vigneto ancora semispoglio, vanno alla casa di Elia.

L’incontro fra fratelli è piuttosto sostenuto. Il maggiore si sente offeso e lo vuole far rilevare. Il minore si sente umana­mente colpevole e non reagisce. Ma l’arrivo della madre, che senza parole si prostra e bacia l’orlo della veste di Gesù, rasse­rena l’ambiente e gli animi. Tanto che si vuole fare onore al Maestro.

Il quale però non accetta nulla, ma solo dice: «Siano giusti i vostri cuori, l’uno verso l’altro, come giusto era colui che pian­gete. Non date impronta umana al sovrumano: la morte e l’ele­zione ad una missione. L’anima del giusto non si è agitata nel vedere che il figlio mancava alla sepoltura del suo cadavere. Ma si è anzi messa quieta, nella sicurezza sul futuro del suo Elia. Il pensiero del mondo non turbi la grazia dell’elezione. Se il mondo ha potuto stupire di non vedere costui presso il fere­tro paterno, gli angeli hanno esultato nel vederlo a fianco del Messia. Siate giusti. E tu, madre, sii consolata da questo. Hai educato con saggezza, e tuo figlio è stato chiamato dalla Sa­pienza. Vi benedico tutti. La pace sia con voi ora e sempre».

Tornano sulla via che riprendono per andare al fiume e da qui a Betsaida. L’uomo, Elia, neppure si è attardato un istante sulla soglia paterna. Dopo il bacio di addio alla madre ha se­guito il Maestro con la semplicità con cui un bambino segue il suo vero padre.

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato. [180.1-6] – ed. CEV

1Eccoci di nuovo nella cucina di Pietro. La cena deve essere stata abbondante, perché i piatti coi resti di pesce e di carne, di formaggi, di frutta secche o per lo meno avvizzite, di focacce di miele, si ammucchiano su una specie di credenza che ri­corda un poco le nostre madie toscane, e anfore con calici sono ancora sparsi sulla tavola.

La moglie di Pietro deve aver fatto miracoli per fare contento il marito e deve avere lavorato tutta la giornata. Ora, stanca ma contenta, sta nel suo angolino e ascolta ciò che dice il suo uomo e ciò che dicono gli altri. Lo guarda, il suo Simone, che per lei deve essere un grande uomo anche se un poco esi­gente, e quando lo sente parlare con parole nuove su quella bocca che prima parlava solo di barche, di reti, di pesci e di denaro, ha persino uno sbattimento di palpebre come fosse ab­bagliata da troppa luce. Pietro, sia per la gioia di avere alla sua tavola Gesù, sia per la gioia dell’abbondante pasto consu­mato, è proprio in vena questa sera, e si rivela in lui il futuro Pietro che predica alle folle.

Non so quale osservazione di un compagno abbia originato la risposta scultorea di Pietro che dice: «Avverrà loro come ai fondatori della torre di Babele. La loro stessa superbia provo­cherà il crollo delle loro teorie e rimarranno schiacciati».

Al fratello obbietta Andrea: «Ma Dio è Misericordia. Impedirà il crollo per dare loro tempo di ravvedersi».

«Non te lo pensare. A coronamento della loro superbia metteranno calunnia e persecuzione. Oh! io già me lo sento. Perse­cuzioni su noi per disperderci come testimoni odiosi. E, posto che attaccheranno con insidia la Verità, Dio farà le vendette ed essi periranno».

«Avremo noi forza di resistenza?», chiede Tommaso.

«Ecco… per me non l’avrei. Ma fido in Lui», e Pietro accenna il Maestro, che ascolta e tace stando un poco a capo chino come per tenere nascosto il suo viso espressivo.

«Io penso che Dio non ci darà prove superiori alle nostre forze», dice Matteo.

«O per lo meno aumenterà le forze in proporzione delle prove», termina Giacomo d’Alfeo.

«Egli lo fa già. 2Io ero ricco e potente. Se Dio non mi avesse voluto conservare per un suo fine, io sarei perito nella dispera­zione quando fui perseguitato e lebbroso. Avrei infierito su me stesso… Invece nel mio crollo completo scese una ricchezza nuova che non avevo mai posseduta prima, la ricchezza di una persuasione: “Dio c’è”. Prima… Dio… Sì, ero credente, ero un fedele israelita. Ma era una fede di formalismi. E mi pareva che il premio della stessa fosse sempre inferiore alle mie virtù. Mi permettevo di discutere con Dio perché mi sentivo ancora qualcosa sulla Terra. Simon Pietro ha ragione. Io pure costrui­vo una torre di Babele con le autolodi e le soddisfazioni del mio io. Quando tutto mi crollò addosso, e fui un verme schiac­ciato dal peso di tutto questo inutile umano, allora non discus­si più con Dio, ma con me stesso, col mio pazzo me stesso, e fi­nii di demolirlo. E più lo facevo, facendo strada a ciò che io penso sia il Dio immanente sul nostro essere di terrestri, ecco che raggiungevo una forza, una ricchezza nuova. La certezza che non ero solo e che Dio vegliava sull’uomo vinto dall’uomo e dal male».

«Secondo te, che pensi che sia Dio, questo che tu hai detto “il Dio immanente sul nostro essere di terrestri”? Che vuoi di­re? Non ti comprendo e mi pare un’eresia. Dio è quello che co­nosciamo attraverso la Legge ed i Profeti. Non ve ne è altro», dice un poco severo Giuda Iscariota.

«Se ci fosse Giovanni te lo direbbe meglio di me. Ma io te lo dico come so. Dio è quello che conosciamo attraverso la Legge e i Profeti. È vero. Ma in che lo conosciamo? Come?».

Giuda d’Alfeo scatta: «Poco e male. Ancora lo conoscevano essi, i Profeti che ce lo hanno descritto. Noi ne abbiamo l’idea confusa che trapela dall’ingombro di tutta una catasta accu­mulata dalle sètte…».

«Sètte? Ma come parli? Noi non abbiamo sètte. Noi siamo i figli della Legge. Tutti», dice l’Iscariota sdegnato, aggressivo.

«I figli delle leggi. Non della Legge. È una lieve differenza. Dal singolare al plurale. Ma nella sua realtà ciò è: che siamo figli di ciò che abbiamo creato, e non più di ciò che Dio ci ha dato», ribatte il Taddeo.

«Le leggi sono nate dalla Legge», dice l’Iscariota.

«Anche le malattie nascono dal nostro corpo, e non mi vor­rai dire che sono cose buone», replica il Taddeo.

«Ma lasciatemi sapere cosa è il Dio immanente di Simone Zelote». L’Iscariota, che non può ribattere alla osservazione di Giuda d’Alfeo, cerca di ricondurre la questione al punto di partenza.

3Simone Zelote dice: «Ai nostri sensi occorre sempre un ter­mine per afferrare un’idea. Ognuno di noi, parlo di noi creden­ti, crede per forza di fede all’Altissimo, Signore e Creatore, eterno Iddio che sta nel Cielo. Ma anche ogni essere ha bisogno di più di questa nuda fede, vergine, incorporea, atta e suffi­ciente agli angeli che vedono e amano Dio spiritualmente, con­dividendo con Lui la natura spirituale e avendo capacità di ve­dere Dio. Noi abbiamo bisogno di crearci una “figura” di Dio, la quale figura è fatta delle qualità essenziali che doniamo a Dio per dare un nome alla sua perfezione assoluta, infinita. Più l’anima si concentra e più riesce a raggiungere l’esattezza nella cognizione di Dio. Ecco ciò che io dico: il Dio immanente. Io non sono un filosofo. Forse avrò applicato male la parola. Ma insomma per me il Dio immanente è il sentire, il percepire Dio sul nostro spirito, e sentirlo e percepirlo non più come idea astratta ma come reale presenza datrice di una fortezza e di una pace nuova».

«Va bene. Ma insomma come lo sentivi? Quale differenza c’è fra il sentire per fede e sentire per immanenza?», chiede un po­co ironico l’Iscariota.

«Dio è sicurezza, ragazzo. Quando tu lo senti come dice Si­mone, con quella parola che io non capisco alla lettera ma del­la quale capisco lo spirito – e credi che il nostro male è di ca­pire solo la lettera e non lo spirito delle parole di Dio – vuol dire che riesci ad afferrare non solo il concetto della maestà terribile, ma della paternità dolcissima di Dio. Vuol dire che senti che, quando tutto il mondo ti giudicasse e condannasse con ingiustizia, Uno solo, Lui, l’Eterno che ti è padre, non ti giudica ma ti assolve e consola. Vuol dire che senti che quando tutto il mondo ti odiasse tu sentiresti su te un amore più gran­de di tutto il mondo. Vuol dire che segregato in una carcere o in un deserto tu sentiresti sempre che Uno ti parla e dice: “Sii santo per essere come il Padre tuo”. Vuol dire che per l’amore vero a questo Padre Dio, che finalmente si arriva a sentire tale, si accetta, si opera, si prende o si lascia senza misure umane, pensando solo a rendere amore per amore, a copiare il più pos­sibile Dio nelle proprie azioni», dice Pietro.

«Sei superbo! Copiare Dio! Non ti è concesso», giudica l’Isca­riota.

«Non è superbia. L’amore porta all’ubbidienza. Copiare Dio mi sembra ancora una forma di ubbidienza, perché Dio dice di averci fatto a sua immagine e somiglianza», replica Pietro.

«Ci ha fatto. Noi non dobbiamo andare più su».

«Ma sei un disgraziato se pensi così, caro ragazzo! Tu di­mentichi che noi siamo decaduti e che Dio ci vuole riportare a ciò che eravamo».

4Gesù prende la parola: «Più ancora, Pietro, Giuda e voi tutti. Più ancora. La perfezione di Adamo era ancora suscetti­bile di aumento mediante l’amore che lo avrebbe portato ad una immagine sempre più esatta del suo Creatore. Adamo sen­za la macchia del peccato sarebbe stato un tersissimo specchio di Dio. Per questo Io dico: “Siate perfetti come è perfetto il Padre che è nei Cieli”. Come il Padre. Perciò come Dio. Pietro ha detto molto bene. E molto bene Simone. Vi prego ricordare le loro parole e applicarle alle vostre anime».

La moglie di Pietro per poco si sviene nella gioia di sentire lodare così suo marito. Piange dentro il suo velo, quieta e bea­ta.

Pietro sembra gli venga un colpo apoplettico tanto diventa rosso. Resta muto per qualche momento e poi dice: «Ebbene, allora dammi il premio. La parabola di stamane…».

Anche gli altri si uniscono a Pietro dicendo: «Sì. Lo hai promesso. Le parabole servono bene a fare comprendere il pa­ragone. Ma noi comprendiamo che esse hanno uno spirito superiore al paragone. 5Perché parli ad essi in parabole?».

«Perché a loro non è concesso di intendere più di ciò che spiego. A voi va dato molto di più perché voi, miei apostoli, do­vete conoscere il mistero; e vi è perciò dato di intendere i miste­ri del Regno dei Cieli. Per questo vi dico: “Domandate se non comprendete lo spirito della parabola”. Voi date tutto, e tutto vi va dato perché a vostra volta tutto voi possiate dare. Voi tut­to date a Dio: affetti, tempo, interessi, libertà, vita. E tutto Dio vi dà per compensarvi e per farvi capaci di tutto dare in nome di Dio a chi è dopo di voi. Così a chi ha dato sarà dato e con ab­bondanza. Ma a chi non ha dato che parzialmente o non ha da­to affatto, sarà tolto anche quello che ha.

Parlo loro in parabole perché vedendo vedano solo quello che la loro volontà di aderire a Dio illumina, perché udendo, sempre per la stessa loro volontà di adesione, odano e com­prendano. Voi vedete! Molti odono la mia parola, pochi aderi­scono a Dio. I loro spiriti sono monchi della buona volontà. In loro si adempie la profezia di Isaia: “Udirete con le orecchie e non intenderete, guarderete con gli occhi e non vedrete”. Per­ché questo popolo ha un cuore insensibile; sono duri gli orec­chi e hanno chiusi gli occhi per non vedere e per non sentire, per non intendere col cuore e non convertirsi acciò Io li guari­sca. Ma voi beati per i vostri occhi che vedono e i vostri orecchi che odono, per la vostra buona volontà!

In verità vi dico che molti profeti e molti giusti desideraro­no vedere ciò che voi vedete e non lo videro, e udire ciò che voi udite e non l’udirono. Si consumarono nel desiderio di com­prendere il mistero delle parole, ma spenta la luce della profe­zia ecco le parole rimanere come carboni spenti, anche per il santo che le aveva avute.

Solo Dio disvela Se stesso. Quando la sua luce si ritrae, terminato il suo scopo di illuminare il mistero, l’incapacità di intendere fascia, come le bende di una mummia, la regale verità della parola ricevuta. Per questo Io ti ho detto stamane: “Verrà un giorno che ritroverai tutto quanto ti ho dato”. Ora non puoi ritenere. Ma dopo la luce verrà su te, e non per un attimo ma per un inseparabile connubio dello Spirito eterno col tuo, onde infallibile sarà il tuo ammaestramento in ciò che è cosa del Regno di Dio. E, così come in te, nei tuoi successori, se vivranno di Dio come di unico pane.

6Ora sentite lo spirito della parabola.

Abbiamo quattro generi di campi: quelli fertili, quelli spino­si, quelli sassosi, quelli pieni di sentieri. Abbiamo anche quat­tro generi di spiriti.

Abbiamo gli spiriti onesti, gli spiriti di buona volontà, pre­parati dalla stessa e dalla buona opera di un apostolo, di un “vero” apostolo; perché ci sono apostoli che hanno il nome ma non lo spirito di apostoli, i quali sono più micidiali sulle vo­lontà in formazione degli stessi uccelli, spini e sassi. Sconvol­gono in modo tale, con le loro intransigenze, con le loro frette, con i loro rimproveri, con le loro minacce, che allontanano per sempre da Dio. Altri ve ne sono che, all’opposto, con un innaf­fiamento continuo di benignità fuori posto, fanno marcire il seme in un terreno troppo molle. Devirilizzano con la loro de­virilizzazione gli animi che curano. Ma stiamo ai veri apostoli, ossia agli specchi tersi di Dio. Essi sono paterni, misericordio­si, pazienti, e nello stesso tempo forti come è il loro Signore. Or bene, gli spiriti preparati da questi e dalla loro propria volontà sono paragonabili ai campi fertili, mondi di pietre e di rovi, netti da gramigne e da logli, in cui prospera la parola di Dio, e ogni parola – un seme – fa cespo e spighe, dando dove il cen­to, dove il sessanta, dove il trenta per cento. In questi che mi seguono ce ne sono? Certo. E santi saranno. Fra essi ce ne sono di tutte le caste e di tutti i paesi, anche gentili ci sono, e che pure daranno il cento per cento per la loro buona volontà, uni­camente per essa, oppure per la loro e quella di un apostolo o discepolo che me li prepara.

I campi spinosi sono quelli in cui l’incuria ha lasciato pene­trare spinosi grovigli di interessi personali che soffocano il buon seme. Occorre sorvegliarsi sempre, sempre, sempre. Non dire mai: “Oh! ormai io sono formato, seminato, posso stare tranquillo che darò seme di vita eterna”. Occorre sorvegliarsi: la lotta fra il Bene e Male è continua. Avete mai osservato una tribù di formiche che si insedia in una casa? Eccole sul focola­re. La donna non lascia più cibarie lì e le mette sul tavolo; e lo­ro fiutano l’aria e danno l’assalto al tavolo. La donna le mette nella credenza e loro passano dalla serratura nella credenza. La donna appende al soffitto le sue provviste e loro fanno un lungo cammino lungo le pareti e i travicelli, si calano per la fu­ne e mangiano. La donna le brucia, le scotta, le avvelena. E poi sta tranquilla credendo di averle distrutte. Oh! se non vigila, che sorpresa! Ecco le nuove nate che escono, e siamo da capo. Così finché si vive; bisogna sorvegliarsi per estirpare le male piante non appena spuntano. In caso contrario esse fanno un soffitto di rovi e soffocano il grano. Le cure mondane, l’ingan­no delle ricchezze creano il groviglio, affogano la pianta del se­me di Dio e non le fanno fare spiga.

Ecco ora i campi pieni di sassi. Quanti in Israele! Sono quel­li che appartengono ai “figli delle leggi”, come ha detto mio fra­tello Giuda molto giustamente. In loro non è la pietra unica del­la Testimonianza, non vi è la pietra della Legge. Vi è la sassaia delle piccole, povere, umane leggi create dagli uomini. Tante e tante che col loro peso hanno fatto a scaglie anche la pietra del­la Legge. Una rovina che impedisce ogni attecchimento di seme. Non è più nutrita la radice. Non c’è terra, non c’è succo. L’ac­qua fa marcire perché stagna sul pavimento di selci, il sole si ar­roventa su quelle selci e brucia le pianticine. Sono gli spiriti dei sostitutori delle complicate dottrine umane alla semplice dot­trina di Dio. La ricevono anche con gioia, la mia parola. Al mo­mento ne sono scossi e sedotti. Ma poi… Occorrerebbe l’eroismo di sgobbare a mondare il campo, l’animo e la mente da tutta la sassaia dei retori. Allora il seme farebbe radica e sarebbe un forte cespo. Così… è nulla. Basta un timore di rappresaglie umane. Basta una riflessione: “Ma e poi? Che me ne verrà dagli uomini potenti?”, e il povero seme non nutrito langue. Basta che tutta la sassaia si agiti col suono vano dei cento e cento precet­ti che si sono sostituiti al Precetto, che ecco che l’uomo perisce col seme ricevuto… Israele ne è pieno. Questo spiega come il ve­nire a Dio vada in ragione inversa della potenza umana.

Ultimi i campi pieni di strade, polverosi, nudi. Quelli dei mondani, degli egoisti. Il loro comodo è la loro legge, il godi­mento il loro fine. Non fare fatica, sonnecchiare, ridere, man­giare… Lo spirito del mondo è re in questi. La polvere della mondanità ricopre il terreno che diviene terriccio. Gli uccelli, ossia le dissipazioni, si precipitano sui mille sentieri aperti per rendere più facile la vita. Lo spirito del mondo, ossia del Maligno, becca e distrugge ogni seme che cade su questo terreno aperto a tutte le sensualità e le leggerezze. Avete inteso? Avete altro da chiedere? No? Allora possiamo andare a prendere riposo per partire domani per Cafarnao. Devo andare ancora in un posto prima di incominciare il viaggio verso Gerusalemme per la Pasqua». 

Una risposta a “XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A – Mt 13,1-23 – Il Seminatore”

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