XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A – PARABOLE

 

a cura di Giovanna Busolini

(Sottolineature, grassetti e note sono i miei. Immagini tratte dal WEB.)

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Prima Lettura

Dopo i peccati, tu concedi il pentimento.

Dal libro della Sapienza
Sap 12,13.16-19

Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono. Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.

Salmo Responsoriale

Dal Sal 85 (86)

R. Tu sei buono, Signore, e perdoni.

Tu sei buono, Signore, e perdoni,
sei pieno di misericordia con chi t’invoca.
Porgi l’orecchio, Signore, alla mia preghiera
e sii attento alla voce delle mie suppliche. R.

Tutte le genti che hai creato verranno
e si prostreranno davanti a te, Signore,
per dare gloria al tuo nome.
Grande tu sei e compi meraviglie:
tu solo sei Dio. R.

Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso,
lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà,
volgiti a me e abbi pietà. R.

Seconda Lettura

Lo Spirito intercede con gemiti inesprimibili.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Rm 8,26-27
Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
 

Vangelo

Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura.

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?. Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo!. E i servi gli dissero: Vuoi che andiamo a raccoglierla?. No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

Carissimi,

ci ritroviamo nuovamente a meditare su questo Vangelo secondo Matteo e sulle tante parabole che Gesù ha raccontato durante la Sua Vita terrena.

Queste parabole, che potete ritrovare nel blog, ci vengono riportate da Maria Valtorta così come lei le udiva raccontare da Gesù al popolo, ma che poi, in privato, Lui spiegava esaustivamente ai Suoi Discepoli.

Anche in questo caso, le 3 parabole hanno collocazioni diverse e quindi riporto tre diversi capitoli tratti da L’Evangelo come mi è stato rivelato.

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato. [181.1-7] – ed. CEV

Poema: III, 41 

 La parabola del grano e del loglio.

8 giugno 1945.

 1Un’alba chiara imperla il lago e fascia i colli di una nebbia leggera come velo di mussola da cui appaiono, ingentiliti, ulivi e noci, e case e dossi dei paesi del lago. Le barche scivolano quiete e silenziose, dirette verso Cafarnao. Ma ad un certo punto Pietro piega la barra del timone così rudemente che la barca si inchina da un lato.

«Che fai?» chiede Andrea.

«C’è la barca di un gufo. Esce ora da Cafarnao. Ho buoni occhi e, da ieri sera, fiuto di segugio. Non voglio che ci vedano. Torno al fiume. Andremo a piedi».

Anche l’altra barca ha seguito la manovra, ma Giacomo, che regge il timone, chiede a Pietro: «Perché fai questo?».

«Te lo dirò. Vienimi dietro».

Gesù, che è seduto a poppa, si riscuote quando è quasi all’altezza del Giordano.

«Ma che fai, Simone?» chiede.

«Si scende qui. C’è uno sciacallo in giro. Non si può andare a Cafarnao oggi. Prima vado io a sentire un poco. Io con Simone e Natanaele. Tre degne persone contro tre indegne persone… se pure le indegne non saranno di più».

«Non vedere insidie da tutte le parti, ora! Quella non è la barca di Simone il fariseo?».

«E’ proprio quella».

«Non c’era alla cattura di Giovanni».

«Non so niente io».

«E’ sempre rispettoso verso di Me».

«Non so niente io».

«Mi fai parere vile».

«Non so niente io».

Per quanto Gesù non abbia voglia di ridere, deve sorridere per la santa cocciutaggine di Pietro. «Ma a Cafarnao dovremo pure andare. Se non oggi, più tardi…»

«Ti ho detto che vado prima io e sento e… all’occorrenza… farò anche questa… sarà una grossa spina da inghiottire… ma lo farò per amore di Te… Andrò… andrò dal centurione a chiedere protezione…»

«Ma no! Non occorre!».

La barca si arresta sulla spiaggetta deserta, opposta a Betsaida. Scendono tutti.

«Venite voi due. Vieni anche te, Filippo. Voi giovani state qui. Faremo presto».

Il neo discepolo Elia prega: «Vieni in casa mia, Maestro. Ne sarei tanto felice di ospitarti…»

«Vengo. Simone, mi raggiungerai alla casa di Elia. Addio, Simone. Va’. Ma sii buono, prudente e misericordioso. Vieni, che ti baci e benedica».

Pietro non assicura di essere né buono, né paziente, né misericordioso. Tace e scambia il bacio col suo Maestro. Anche lo Zelote, Bartolomeo e Filippo scambiano il bacio di addio e le due comitive si separano andando in opposta direzione.

2Entrano in Corozim che l’aurora è già finita in giorno pie­no. Non vi è stelo che non brilli per gemme di rugiada. Gli uc­celli cantano per ogni dove. Vi è un’aria pura, fresca, che pare sappia persino di latte, di un latte più vegetale che animale. L’odore dei grani che si formano nelle spighe, dei mandorleti carichi di frutti… un odore che ho sentito nelle fresche mattine nei campi opimi della pianura padana. ((G Vi faccio notare che Maria Valtorta non solo vedeva, ma sentiva odori, caldo, freddo ecc., come fosse veramente lì presente col suo corpo mortale, ma lei non si muoveva dal suo letto di inferma paralizzata…))

La casa di Elia è presto raggiunta. Ma già molti in Corozim sanno che è giunto il Maestro e, mentre Gesù sta per porre pie­de sulla soglia, una madre accorre gridando: «Gesù, Figlio di Davide, pietà della mia creatura!». Ha sulle braccia una fan­ciulla di un dieci anni circa, cerea e magrissima. Più che cerea, giallastra.

«Che ha tua figlia?».

«Le febbri. Le ha prese alla pastura lungo il Giordano. Per­ché siamo i pastori di un ricco. Io sono stata chiamata dal pa­dre presso la bambina ammalata. Egli ora è tornato ai monti. Ma Tu sai che con questo male non si può passare in luoghi al­ti. Come posso stare qui? Il padrone mi ha lasciata fino ad ora. Ma io sono alle lane e alle figliate. Viene il tempo del lavoro per noi pastori. Saremo licenziati o divisi se io resto. Vedrò morire la figlia se vado all’Hermon».

«Hai fede che Io possa?».

«Ho parlato con Daniele pastore di Eliseo. Mi ha detto: “Il nostro Bambino guarisce ogni male. Vai dal Messia”. Da oltre Meron sono venuta con questa fra le braccia cercando Te. Avrei sempre camminato fino a trovarti…».

«Non camminare più altro che per tornare a casa, al lavoro sereno. Tua figlia è guarita perché Io lo voglio. Va’ in pace».

La donna guarda la figlia e guarda Gesù. Forse spera di ve­dere tornare grassa e colorita la fanciulla all’istante. Anche la fanciulla sgrana i suoi occhi stanchi, che prima teneva chiusi, in volto a Gesù e sorride.

«Non temere, donna. Non ti inganno. La febbre è sparita per sempre. Di giorno in giorno ella tornerà fiorente. Lasciala andare. Non barcollerà più e non sentirà stanchezza».

La madre posa al suolo la fanciulla, che sta ben ritta e sor­ride sempre più giuliva. Infine trilla con la sua voce argentina: «Benedici il Signore, mamma! Sono ben guarita! Lo sento», e nella sua semplicità di pastorella e di fanciulla si lancia al col­lo di Gesù e lo bacia. La madre, riservata come l’età insegna, si prostra e bacia la veste benedicendo il Signore.

«Andate. Ricordatevi del beneficio avuto da Dio e siate buo­ne. La pace sia con voi».

3Ma la gente si affolla già nell’orticello della casa di Elia e reclama la parola del Maestro. E per quanto Gesù non abbia molta voglia di farlo, addolorato come è per la cattura, e per il modo come è avvenuta, del Battista (( G Si tratta della seconda cattura del Battista, cattura che questa volta lo porterà alla morte, non di quella che Gesù era venuto a sapere non appena rientrato dai 40 giorni nel deserto)),  pure si arrende e all’om­bra degli alberi inizia a parlare.

«Ancora in questo bel tempo di grani che spigano, Io vi vo­glio proporre una parabola presa dai grani. Udite.

Il Regno dei Cieli è simile ad un uomo che seminò buon se­me nel suo campo. Ma, mentre l’uomo e i suoi servi dormivano, venne un suo nemico e sparse seme di loglio sui solchi e poi se ne andò. Nessuno sul principio si accorse di nulla. Venne l’in­verno con le piogge e le brine, venne la fine di tebet e germogliò il grano. Un verde tenero di foglioline appena spuntate. Parevano tutte uguali nella loro infanzia innocente. Venne sce­bat e poi adar e si formarono le piante e poi granirono le spi­ghe. Si vide allora che il verde non era tutto grano ma anche loglio, ben avviticchiato coi suoi vilucchi sottili e tenaci agli steli del grano.

I servi del padrone andarono alla sua casa e dissero: “Si­gnore, che seme hai seminato? Non era seme eletto, mondo da ogni altro seme che grano non fosse?”.

“Certo che lo era. Io ne ho scelto i chicchi tutti uguali di formazione. E avrei visto se vi fossero stati altri semi”.

“E come allora è nato tanto loglio fra il tuo grano?”.

Il padrone pensò, poi disse: “Qualche nemico mio mi ha fat­to questo per farmi danno”.

I servi chiesero allora: “Vuoi che andiamo fra i solchi e con pazienza liberiamo le spighe dal loglio, strappando quest’ulti­mo? Ordina e lo faremo”.

Ma il padrone rispose: “No. Potreste nel farlo estirpare an­che il grano e quasi sicuramente offendere le spighe ancora te­nerelle. Lasciate che l’uno e l’altro stiano insieme fino alla mietitura. Allora io dirò ai mietitori: ‘Falciate tutto insieme; poi, avanti di legare i covoni, ora che il seccume ha fatto fria­bili i vilucchi del loglio mentre più robuste e dure sono le ser­rate spighe, scegliete il loglio dal grano e fatene fasci a parte. Li brucerete poi e faranno concime al suolo. Mentre il buon grano lo porterete nei granai e servirà ad ottimo pane con scorno del nemico, che avrà guadagnato solo di esser abbietto a Dio col suo livore”‘.

Ora riflettete fra voi quanto sovente avvenga e numerosa sia la semina del Nemico nei vostri cuori. E comprendete come occorra vigilare con pazienza e costanza per fare sì che poco loglio si mescoli al grano eletto. La sorte del loglio è di ardere. Volete voi ardere o divenire cittadini del Regno? Voi dite che volete essere cittadini del Regno. Ebbene, sappiatelo essere. Il buon Dio vi dà la Parola. Il Nemico vigila per renderla nociva, poiché farina di grano mescolata a farina di loglio dà pane amaro e nocivo al ventre. Sappiate col buon volere, se loglio è nell’anima vostra, sceglierlo per gettarlo onde non essere inde­gni di Dio.

Andate, figli. La pace sia con voi».

4La gente sfolla lentamente. Nell’orto restano gli otto apostoli più Elia, suo fratello, la madre e il vecchio Isacco, che si pasce l’anima nel guardarsi il suo Salvatore.

«Venitemi intorno e udite. Vi spiego il senso completo della parabola, che ha due aspetti ancora, oltre quello detto alla folla.

Nel senso universale la parabola ha questa applicazione: il campo è il mondo. Il buon seme sono i figli del Regno di Dio, seminati da Dio sul mondo in attesa di giungere al loro limite ed essere recisi dalla Falciatrice e portati al Padrone del mon­do, perché li riponga nei suoi granai. Il loglio sono i figli del Maligno, sparsi a loro volta sul campo di Dio nell’intento di dare pena al Padrone del mondo e di nuocere anche alle spighe di Dio. Il Nemico di Dio li ha, per un sortilegio, seminati apposta, perché veramente il Diavolo snatura l’uomo fino a farne una sua creatura, e questa semina, per traviare altri che non ha potuto asservire altrimenti. La mietitura, anzi la formazio­ne dei covoni e il trasporto degli stessi ai granai, è la fine del mondo, e coloro che la compiono sono gli angeli. A loro è ordi­nato di radunare le falciate creature e separare il grano dal lo­glio e, come nella parabola questo si brucia, così verranno bru­ciati nel fuoco eterno i dannati, all’Ultimo Giudizio.

Il Figlio dell’uomo manderà a togliere dal suo Regno tutti gli operatori di scandali e di iniquità. Perché allora il Regno sarà e in Terra e in Cielo, e fra i cittadini del Regno sulla Terra saranno mescolati molti figli del Nemico. Questi raggiungeranno, come è detto anche dai Profeti, la perfezione dello scan­dalo e dell’abominio in ogni ministero della Terra, e daranno fiera noia ai figli dello spirito. Nel Regno di Dio, nei Cieli, già saranno stati espulsi i corrotti, perché corruzione non entra in Cielo. Ora dunque gli angeli del Signore, menando la falce fra le schiere dell’ultimo raccolto, falceranno e separeranno il gra­no dal loglio e getteranno questo nella fornace ardente dove è pianto e stridor di denti, portando invece i giusti, l’eletto gra­no, nella Gerusalemme eterna dove essi splenderanno come so­li nel Regno del Padre mio e vostro.

5Questo nel senso universale. Ma per voi ve ne è un altro an­cora, che risponde alle domande che più volte, e specie da ieri sera, vi fate. Voi vi chiedete: “Ma dunque fra la massa dei di­scepoli possono essere dei traditori?”, e fremete in cuor vostro di orrore e di paura. Ve ne possono essere. Ve ne sono certo.

Il seminatore sparge il buon seme. In questo caso, più che spargere, si potrebbe dire: “coglie”. Perché il maestro, sia che sia Io o sia che fosse il Battista, aveva scelto i suoi discepoli. Come allora si sono traviati? No, anzi. Male ho detto dicendo “seme” i discepoli. Voi potreste capire male. Dirò allora “cam­po”. Tanti discepoli tanti campi, scelti dal maestro per costi­tuire l’area del Regno di Dio, i beni di Dio. Su essi il maestro si affatica per coltivarli, acciò diano il cento per cento. Tutte le cure. Tutte. Con pazienza. Con amore. Con sapienza. Con fati­ca. Con costanza. Vede anche le loro tendenze malvagie. Le lo­ro aridità e le loro avidità. Vede le loro testardaggini e le loro debolezze. Ma spera, spera sempre e corrobora la sua speranza con la preghiera e la penitenza, perché li vuole portare alla perfezione.

Ma i campi sono aperti. Non sono un chiuso giardino cinto da mura di fortezza, di cui sia padrone solo il maestro e in cui solo lui possa penetrare. Sono aperti. Messi al centro del mon­do, fra il mondo, tutti li possono avvicinare, tutti vi possono penetrare. Tutti e tutto. Oh! non è il loglio solo il mal seme se­minato ! Il loglio potrebbe essere simbolo della leggerezza ama­ra dello spirito del mondo. Ma vi nascono, gettati dal Nemico, tutti gli altri semi. Ecco le ortiche. Ecco le gramigne. Ecco le cuscute. Ecco i vilucchi. Ecco infine le cicute e i tossici. Per­ché? Perché? Che sono?

Le ortiche: gli spiriti pungenti, indomabili, che feriscono per sovrabbondanza di veleni e danno tanto disagio. Le grami­gne: i parassiti che sfiniscono il maestro senza saper fare altro che strisciare e succhiare, godendo del lavoro di lui e nuocendo ai volonterosi, che veramente trarrebbero maggior frutto se il maestro fosse non turbato e distratto dalle cure che esigono le gramigne. I vilucchi inerti che non si alzano da terra che fruen­do degli altri. Le cuscute: tormento sulla via già penosa del maestro e tormento ai discepoli fedeli che lo seguono. Si unci­nano, si conficcano, lacerano, graffiano, mettono diffidenza e sofferenza. I tossici: i delinquenti fra i discepoli, coloro che giungono a tradire e a spegnere la vita come le cicute e le altre piante tossiche. Avete mai visto come sono belle coi loro fiorel­lini che poi divengono palline bianche, rosse, celeste-viola? Chi direbbe che quella corolla stellare, candida o appena rosata, col suo cuoricino d’oro, chi che quei coralli multicolori, tanto simili ad altri frutticini che sono la delizia degli uccelli e dei pargoli, possano, giunti a maturazione, dare morte? Nessuno. E gli innocenti ci cascano. Credono tutti buoni come loro… e ne colgono e muoiono.

Credono tutti buoni come loro! Oh! che verità che sublima il maestro e che condanna il suo traditore! Come? La bontà non disarma? Non rende il malvolere innocuo? No. Non lo ren­de tale, perché l’uomo caduto preda del Nemico è insensibile a tutto ciò che è superiore. E ogni superiore cosa cambia per lui aspetto. La bontà diviene debolezza che è lecito calpestare e acuisce il suo malvolere come acuisce la voglia di sgozzare, in una fiera, il sentire l’odore del sangue. Anche il maestro è sempre un innocente… e lascia che il suo traditore lo avveleni, perché non vuole e non può lasciar pensare agli altri che un uomo giunga ad essere micidiale a chi è innocente.

6Nei discepoli, i campi del maestro, vengono i nemici. Sono tanti. Il primo è Satana. Gli altri i suoi servi, ossia gli uomini, le passioni, il mondo e la carne. Ecco, ecco il discepolo più fa­cile ad essere percosso da essi perché non sta tutto presso al maestro, ma sta a cavaliere fra il maestro e il mondo. Non sa, non vuole separarsi tutto da ciò che è mondo, carne, passioni e demonio, per essere tutto di chi lo porta a Dio. Su questo spar­gono i loro semi e mondo e carne, e passioni e demonio. L’oro, il potere, la donna, l’orgoglio, la paura di un mal giudizio del mondo e lo spirito di utilitarismo. “I grandi sono i più forti. Ecco che io li servo per averli amici”. E si diventa delinquenti e dannati per queste misere cose!… ((G E’ chiaro che Gesù sta alludendo a Giuda, ma vuole anche insegnare agli altri fedeli Apostoli come ci si deve comportare con un traditore… E non dimentichiamo che Gesù sta dando questa lezione dopo aver saputo che il Battista era stato catturato, perché tradito da uno dei suoi Discepoli!))

Perché il maestro, che vede l’imperfezione del discepolo, anche se non vuole arrendersi al pensiero: “Costui sarà il mio uccisore”, non lo estirpa subito dalle sue file? Questo voi vi chiedete.

Perché è inutile farlo. Se lo facesse non impedirebbe di averlo nemico, doppiamente e più sveltamente nemico per la rabbia o il dolore di essere scoperto o di essere cacciato. Dolo­re. Sì. Perché delle volte il cattivo discepolo non si avvede di essere tale. È tanto sottile l’opera demoniaca che egli non l’av­verte. Si indemonia senza sospettare di essere soggetto a que­sta operazione. Rabbia. Sì. Rabbia per essere conosciuto per quello che è, quando egli non è incosciente del lavoro di Sata­na e dei suoi adepti: gli uomini che tentano il debole nelle sue debolezze per levare dal mondo il santo che li offende, nelle lo­ro malvagità, con il paragone della sua bontà.

E allora il santo prega e si abbandona a Dio. “Ciò che Tu permetti si faccia, sia fatto”, dice. Solo aggiunge questa clau­sola: “purché serva al tuo fine”. Il santo sa che verrà l’ora in cui verranno espulsi dalle sue messi i logli malvagi. Da chi? Da Dio stesso, che non permette oltre di quanto è utile al trionfo della sua volontà d’amore».

7«Ma se Tu ammetti che sempre è Satana, e gli adepti di lui… mi sembra che la responsabilità del discepolo scemi», di­ce Matteo.

«Non te lo pensare. Se il Male esiste, esiste anche il Bene, ed esiste nell’uomo il discernimento e con esso la libertà».

«Tu dici che Dio non permette oltre di quanto è utile al trionfo della sua volontà d’amore. Dunque anche questo errore è utile, se Egli lo permette, e serve ad un trionfo di volontà divina», dice l’Iscariota.

«E tu arguisci, come Matteo, che ciò giustifica il delitto del discepolo. Dio aveva creato il leone senza ferocia e il serpente senza veleno. Ora l’uno è feroce e l’altro è velenoso. Ma Dio li ha separati dall’uomo per ciò. Medita su questo e applica. Andiamo nella casa. Il sole è già forte, troppo. Come per inizio di temporale. E voi siete stanchi della notte insonne».

«La casa ha la stanza alta, ampia e fresca. Potrete riposare», dice Elia.

Salgono per la scala esterna. Ma solo gli apostoli si stendo­no sulle stuoie per riposare. Gesù esce sulla terrazza, ombreg­giata in un angolo da un altissimo rovere, e si assorbe nei suoi pensieri.

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato. [184.3-9] – ed. CEV

 Poema: III, 44 

La parabola del granello di senape.

3[…] “….Le anime devono farsi da sé. Io passo, getto il seme. Nel segreto il seme lavora. L’anima va rispettata in questo suo lavoro. Se il primo seme non attecchisce se ne semina un altro, un altro… ritirandosi solo quando si han­no prove sicure della inutilità del seminare. E si prega. La preghiera è come la rugiada sulle zolle: le tiene morbide e nutrite, e il seme può germogliare. Non fai così tu, donna, con le tue ver­dure?

4Ora ascoltate la parabola del lavoro di Dio nei cuori per fondarvi il suo regno. Perché ogni cuore è un piccolo regno di Dio sulla Terra. Dopo, oltre la morte, tutti questi piccoli regni si agglomerano in uno solo, nello smisurato, santo, eterno Re­gno dei Cieli.

Il regno di Dio nei cuori è creato dal Seminatore divino. Egli viene al suo podere – l’uomo è di Dio, perciò ogni uomo è inizialmente suo – e vi sparge il suo seme. Poi se ne va ad altri poderi, ad altri cuori. Si succedono i giorni alle notti e le notti ai giorni. I giorni portano sole o piogge, in questo caso raggi d’amore divino e effusione della divina sapienza che parla allo spirito. Le notti portano stelle e silenzio riposante: nel nostro caso richiami luminosi di Dio e silenzio per lo spirito perché l’anima si raccolga e mediti.

Il seme, in questo succedersi di provvidenze inavvertibili e potenti, si gonfia, si fende, mette radici, si abbarbica, getta fuori le prime fogliette, cresce. Tutto questo senza che l’uomo lo aiuti. La terra produce spontaneamente l’erba dal seme, poi l’erba si fortifica e sorregge la spiga che sorge, poi la spiga si alza, si gonfia, si indurisce, si fa bionda, dura, perfetta nel suo granire. Quando è matura torna il seminatore e vi mette la fal­ce, perché il tempo della perfezione è venuto per quel seme. Di più non potrebbe evolversi e per questo viene colto.

Nei cuori la mia parola fa lo stesso lavoro. Parlo dei cuori che accolgono il seme. Ma il lavoro è lento. Bisogna non sciu­pare tutto con l’intempestività. Come è faticoso al piccolo seme fendersi e conficcare le radici nella terra! Anche al duro e sel­vaggio cuore è penoso questo lavoro. Deve aprirsi, lasciarsi frugare, accogliere cose nuove, faticare a nutrirle, apparire di­verso perché coperto di umili ed utili cose e non più dell’at­traente, pomposo e inutile esuberante fiorire che lo copriva prima. Deve accontentarsi di lavorare con umiltà, senza attira­re ammirazione, per l’utile dell’Idea divina. Deve spremere tutte le sue capacità per crescere e fare spiga. Si deve arroventare d’amore per divenire grano. E quando, dopo avere superato ri­spetti umani tanto, tanto, tanto penosi; dopo aver faticato, sof­ferto ed essersi affezionato alla sua nuova veste, ecco che se ne deve spogliare con un taglio crudele. Dare tutto per avere tutto. Rimanere spoglia per essere rivestito in Cielo della stola dei santi. La vita del peccatore che diventa santo è il più lungo, eroico, glorioso combattimento. Io ve lo dico.

5Comprendete da quanto vi ho detto che è giusto che Io agisca verso Maria ((G Maria di Magdala)) come agisco. Ho forse agito diverso con te, Matteo?».

«No, mio Signore».

«E, dimmi il vero, ti ha più persuaso la mia pazienza o le rampogne acerbe dei farisei?».

«La tua pazienza, tanto che sono qui. I farisei, coi loro sprezzi e i loro anatemi, mi facevano sprezzante, e per sprezzo facevo ancor più male di quanto avevo fino allora fatto. Succede così. Ci si irrigidisce di più quando, essendo in peccato, ci si sente trattare da peccatori. Ma quando in luogo di un insulto ci viene una carezza, si resta sbalorditi; poi si piange… e quando si piange l’armatura del peccato si schiavarda e crolla. Si resta nudi davanti alla Bontà e la si supplica, col cuore, di investirci di Sé».

«Hai detto bene. 6Beniamino, ti piace la storia? Sì? Bravo. E la mamma dove è?».

Risponde Giacomo d’Alfeo: «E’ uscita al termine della parabola, andando di corsa per quella via».

«Andrà al mare per vedere se viene lo sposo» dice Tommaso.

«No. E’ andata dalla vecchia madre a prendere i fratellini. La mamma li porta là per potere lavorare» dice il bambino appoggiato confidenzialmente ai ginocchi di Gesù.

«E tu stai qui, uomo? Devi essere un bell’aspide se ti tiene solo!» osserva Bartolomeo.

«Io sono il più grande, e l’aiuto…»

«A guadagnarsi il Paradiso, povera donna! Quanti anni hai?» chiede Pietro.

«Fra tre anni sono figlio della Legge» dice con superbia il monello.

«Sai leggere?» domanda il Taddeo.

«Sì… ma vado adagio perché… perché il maestro mi mette fuori quasi tutti i giorni…»

«L’ho detto io!» dice Bartolomeo.

«Ma faccio così perché il maestro è vecchio e brutto e dice sempre le stesse cose che fanno dormire! Fosse come Lui (e accenna a Gesù) starei attento. Picchi, Tu, chi dorme o giuoca?».

«Io non picchio nessuno. Ma dico ai miei scolari: “State attenti per vostro bene e per amore mio”» risponde Gesù.

«Ecco, così sì! Per amore sì. Non per paura».

«Ma se tu diventi buono, il maestro ti vuole bene».

«Tu vuoi bene solo a chi è buono? Poco fa hai detto che sei stato paziente con questo qui, che non era buono…».

La logica infantile è stringente.

«Io sono buono con tutti. Ma chi diventa buono è amato molto, molto da Me, e con quello sono tanto, tanto buono».

7Il bambino pensa… poi alza la testa e chiede a Matteo: «Tu come hai fatto a diventare buono?».

«Gli ho voluto bene».

Il bambino pensa ancora, e poi guarda i dodici e dice a Gesù: «Sono tutti buoni questi?».

«Certamente che lo sono».

«Ne sei sicuro? Delle volte io faccio il buono, ma è quando voglio fare un… malestro più grosso».

La risata di tutti è fragorosa. Ride anche l’ometto in via di confessarsi. Ride anche Gesù, che se lo stringe al cuore e lo bacia. Il bambino, ormai molto amico di tutti, vuole giocare e dice: «Ora ti dico io chi è buono» e inizia la sua scelta. Guarda tutti e va dritto da Giovanni e Andrea, che sono vicini, e dice: «Tu e tu. Venite qui». Poi sceglie i due Giacomi e li unisce ai due. Poi prende il Taddeo. Resta molto in pensiero davanti allo Zelote e a Bartolomeo e dice: «Siete vecchi, ma siete buoni» e li unisce agli altri. Considera Pietro, che subisce l’esame facendo degli occhiacci per burla, e lo trova buono. Matteo anche lui passa e così Filippo. A Tommaso dice: «Tu ridi troppo. Io faccio sul serio. Non sai che il mio maestro dice che chi ride sempre sbaglia poi alla prova?». Ma insomma anche Tommaso passa, con pochi voti, ma passa l’esame. Poi il bambino torna da Gesù.

«Ehi, monello! Ci sono anche io! Non sono una pianta. Sono giovane e bello. Perché non mi esamini?» dice l’Iscariota.

«Perché non mi piaci. La mamma dice che quando una cosa non piace non la si tocca. Si lascia sulla tavola, che la prendano gli altri ai quali può piacere. E dice che, se uno offre una cosa che non piace, non si dice: “Non mi piace”. Ma si dice: “Grazie, non ho fame”. Io non ho fame di te».

«Ma come? Guarda, se mi dici che sono buono ti do questa moneta».

«Che me ne faccio? Cosa compero con una bugia? La mamma dice che i denari frutti di inganno diventano paglia. Una volta dalla madre vecchia mi sono fatto dare con una bugia un didramma per comperarmi le focacce col miele, e nella notte mi è diventato paglia. Lo avevo messo in quel buco lì, sotto la porta, per prenderlo al mattino, e ci ho trovato un mannello di paglia».

«Ma perché non mi vedi buono? Che ho? Il piede fesso? Sono brutto?».

«No. Ma mi fai paura».

«Ma perché?» chiede l’Iscariota avvicinandosi.

«Non so. Lasciami stare. Non mi toccare o ti graffio».

«Che istrice! E’ folle». Giuda ride male.

«Non folle. Tu sei cattivo» e il bambino si rifugia in grembo a Gesù, che lo carezza senza parlare. Gli apostoli scherzano sull’accaduto, poco lusinghiero per l’Iscariota.

8Intanto ecco che torna la donna con una dozzina di persone e poi, ancora, ecco altre e altre. Saranno cinquanta circa. Tutta povera gente. 

«Parleresti loro? Almeno un pochino. Questa è la madre di mio marito, questi i miei figli. E quell’uomo là è mio marito. Una parola, Signore» supplica la donna.

«Per dirti grazie dell’ospitalità. Sì. La dico».

La donna entra in casa dove la reclama il poppante e si siede sulla soglia dando il seno da succhiare.

«Udite. Qui sulle mie ginocchia ho un bambino che ha par­lato molto saggiamente. Ha detto: “Tutte le cose ottenute con inganno divengono paglia”. La sua mamma gli ha insegnato questa verità. Non è favola. È verità eterna. Non riesce mai be­ne quanto si fa senza onestà. Perché la menzogna nelle parole, negli atti, nella religione, è sempre segno della alleanza con Satana, maestro di menzogna.

Non vogliate credere che le opere atte a conseguire il Regno dei Cieli siano opere fragorosamente vistose. Sono atti conti­nui, comuni, ma fatti con un fine soprannaturale d’amore. L’amore è il seme della pianta che nascendo in voi cresce fino al Cielo, e alla cui ombra nascono tutte le altre virtù. Lo para­gonerò ad un minuscolo granello di senape. Come è piccino! Uno dei più piccoli fra i semi che l’uomo sparge. Eppure guar­date, quando è compita la pianta, quanto si fa forte e fronzuta e quanto frutto dà. Non il cento per cento, ma il cento per uno. Il più piccolo. Ma il più solerte nel lavorare. Quanto utile vi dona.

Così l’amore. Se voi chiuderete nel vostro seno un semino d’amore per il nostro santissimo Iddio e per il vostro prossimo e sulla guida dell’amore farete le vostre azioni, non mancherete a nessun precetto del Decalogo. Non mentirete a Dio con una falsa religione, di pratiche e non di spirito. Non mentirete al prossimo con una condotta di figli ingrati, di sposi adulteri o anche solo troppo esigenti, di ladri nei commerci, di mentitori nella vita, di violenti verso chi vi è nemico. Guardate in que­st’ora calda quanti uccellini si rifugiano fra le ramaglie di quest’orto. Fra poco quel solco di senape, per ora ancora picci­na, sarà un vero passeraio. Tutti gli uccelli verranno al sicuro e all’ombra di quelle piante così folte e comode, ed i piccoli degli uccelli impareranno a fare sicura l’ala proprio fra quel rameg­giare che fa scala e rete per salire e per non cadere. Così l’amo­re, base del Regno di Dio.

Amate e sarete amati. Amate e vi compatirete. Amate e non sarete crudeli volendo più di quanto non sia lecito da chi vi è sottoposto. Amore e sincerità per ottenere la pace e la gloria dei Cieli. Altrimenti, come ha detto Beniamino, ogni vostra azione, fatta mentendo all’amore e alla verità, vi si muterà in paglia per il vostro letto infernale.

Io non vi dico altre cose. Vi dico solo: abbiate presente il grande precetto dell’amore e siate fedeli a Dio Verità ed alla verità in ogni parola, atto e sentimento, perché la verità è fi­glia di Dio. Una continua opera di perfezionamento di voi, così come il seme continuamente cresce fino alla sua perfezione. Un’opera silenziosa, umile, paziente. Siate certi che Dio vede le vostre lotte e vi premia più di un egoismo vinto, di una paro­la villana trattenuta, di un’esigenza non imposta, che non se, armati in battaglia, uccideste il nemico. Il Regno dei Cieli, di cui sarete possessori se vivrete da giusti, è costruito con le pic­cole cose di ogni giorno. Con la bontà, la morigeratezza, la pa­zienza, col contentarsi di ciò che si ha, con il compatimento re­ciproco, con l’amore, l’amore, l’amore.

Siate buoni. Vivete in pace gli uni con gli altri. Non mormo­rate. Non giudicate. Dio sarà allora con voi. Vi do la mia pace come benedizione e ringraziamento della fede che avete in Me».

9Poi Gesù si volge alla donna dicendo: «Dio benedica te in particolare, perché sei una santa moglie e una santa madre. Persevera nella virtù. Addio, Beniamino. Sii sempre più aman­te della verità e ubbidisci a tua madre. La benedizione a te e ai tuoi fratellini, e a te, madre».

Un uomo si fa avanti. È confuso e balbetta: «Ma, ma… io sono commosso di quanto dici di mia moglie… Non sapevo…».

«Non hai occhi e intelletto forse?».

«Li ho».

«Perché non li usi? Vuoi che te li snebbi?».

«Lo hai già fatto, Signore. Ma le voglio bene, sai? È che… ci si abitua… e… e…».

«E ci si crede lecito pretendere troppo perché l’altro è più buono di noi… Non lo fare più. Sei sempre in pericolo col tuo mestiere. Non temere delle burrasche se Dio è con te. Ma se con te è l’Ingiustizia, temi fortemente. Hai capito?».

«Più che Tu non dica. Ma cercherò di ubbidirti… Non sape­vo… Non sapevo…», e guarda la moglie come la vedesse per la prima volta.

Gesù benedice ed esce sulla stradetta. Riprende il cammino verso la campagna.

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato. [327.1-6] – ed. CEV

 Poema: V, 15 

La parabola del lievito

1La strada che dalla Fenicia viene verso Tolemaide è una bella strada che taglia, diritta diritta, la pianura fra il mare e i monti. E, per il modo come è mantenuta, è molto frequentata. Sovente tagliata da strade minori, che dai paesi dell’interno vanno a quelli della costa, offre numerosi crocevia presso i quali è generalmente una casa, un pozzo e una rudimentale mascalcia per i quadrupedi che possono aver bisogno di ferri.

Gesù, coi sei rimasti con Lui, percorre un bel tratto di stra­da, due chilometri e più, sempre vedendo le stesse cose. Infine si ferma presso una di queste case con pozzo e mascalcia, ad un bivio presso un torrente sormontato da un ponte che, per essere robusto, ma largo appena quanto basta al passaggio di un carro, fa sì che vi sia sosta forzata di chi va e di chi viene, perché le due correnti opposte non potrebbero passare insieme. E ciò dà modo ai passeggeri, di razze diverse, da quel che rie­sco a capire, ossia fenici ed israeliti veri e propri, in odio fra di loro, di accumunarsi in un unico intento: quello di imprecare a Roma… Senza Roma essi non avrebbero neanche quel ponte, e col torrente colmo non so come avrebbero potuto passare. Ma tant’è! L’oppressore è sempre odiato anche se fa cose utili!

Gesù si ferma presso il ponte, nell’angolo pieno di sole dove è la casa che sul lato lungo il torrente ha la maleodorante ma­scalcia, nella quale si stanno forgiando ferri per un cavallo e due asinelli che li hanno perduti. Il cavallo è attaccato ad un carro romano, sul quale sono militi che si dilettano a fare boc­cacce agli ebrei imprecanti. E ad un vecchio nasuto, astioso più di tutti, una vera bocca viperina che credo morderebbe vo­lentieri i romani pur di avvelenarli, tirano addosso una man­ciata di letame equino…

Figurarsi quello che avviene! Il vecchio ebreo scappa urlan­do come lo avessero infettato di lebbra, e a lui si uniscono in coro altri ebrei. I fenici gridano ironici: «Vi piace la manna nuova? Mangiate, mangiate, per aver lena a gridare contro quelli che sono troppo buoni con voi, ipocrite vipere». I soldati sghignazzano… Gesù tace.

Il carro romano parte finalmente, salutando il maniscalco col grido: «Salve, o Tito, e prospero soggiorno!».

L’uomo, ga­gliardo, anziano, dal collo taurino, il volto sbarbato, gli occhi nerissimi ai lati di un naso robusto e sotto la tettoia di una fronte sporgente e ampia, un poco stempiata per mancanza di capelli che, là dove sono, sono corti e alquanto cresputi, alza il pesante martello con gesto di addio e poi si volge da capo all’incudine, sulla quale un giovane ha posto un ferro rovente, mentre un altro ragazzo brucia lo zoccolo di un somarello per regolarlo alla prossima ferratura.

2«Sono quasi tutti romani questi maniscalchi lungo le strade. Soldati rimasti qui dopo il servizio. E ci guadagnano… Non hanno mai impedimenti a curare le bestie… E un asino può sferrarsi anche avanti al tramonto del sabato o in tempo di Encenie…», osserva Matteo.

«Quello che ci ha ferrato Antonio era sposato ad una ebrea», dice Giovanni.

«Le donne stolte sono più delle donne savie», sentenzia Giacomo di Zebedeo.

«E i figli di chi sono? Di Dio o del paganesimo?», chiede Andrea.

«Sono del coniuge più forte, generalmente», risponde Matteo. «E, solo che la donna non sia lei una apostata, sono ebrei, perché l’uomo, questi uomini, lasciano fare. Non sono molto… fanatici neppure del loro Olimpo. Credo che ormai non creda­no altro che al bisogno del guadagno. Sono pieni di figli».

«Spregevoli unioni, però. Senza una fede, senza una vera patria… invisi a tutti…», dice il Taddeo.

«No. Ti sbagli. Roma non li disprezza. Anzi li aiuta sempre. Servono più così che quando portavano le armi. Penetrano in noi con la corruzione del sangue più che con la violenza. Chi soffre, se mai, è la prima generazione. Poi si spargono e… il mondo dimentica…», dice Matteo che pare molto pratico.

«Sì, sono i figli quelli che soffrono. Ma anche le donne ebree, congiunte così… Per loro stesse e per i loro figli. Mi fan­no pietà. Nessuno parla loro più di Dio. Ma ciò non sarà più in avvenire. Allora non saranno più queste separazioni di creatu­re e di nazioni, perché le anime saranno unite in una sola Pa­tria: la mia», dice Gesù, fino allora silenzioso.

«Ma allora saranno morte!…», esclama Giovanni.

«No. Saranno raccolte nel mio Nome. Non più romani o libi­ci, greci o pontici, iberi o gallici, egizi o ebrei, ma anime di Cri­sto. E guai a coloro che vorranno distinguere le anime, tutte da Me ugualmente amate e per le quali in uguale modo avrò sofferto, a seconda delle loro patrie terrene. Colui che così facesse dimostrerebbe di non avere compreso la Carità, che è universale».

Gli apostoli sentono il velato rimprovero e curvano il capo tacendo…

3Il fragore del ferro battuto sull’incudine si è taciuto e già rallentano i colpi sull’ultimo zoccolo asinino. Gesù ne approfitta per alzare la voce e farsi sentire dalla folla. Pare continui il discorso ai suoi apostoli. In realtà parla ai passanti e forse anche a chi è nella casa, delle donne certo, perché richiami di voci femminee vanno per l’aria tiepida.

«Anche se pare inesistente, una parentela è sempre negli uomini. Quella della provenienza da un unico Creatore. Ché, se poi i figli di un unico Padre si sono separati, non per questo si è mutato il legame d’origine, così come non si muta il sangue di un figlio quando ripudia la paterna casa. Nelle vene di Cai­no fu il sangue di Adamo anche dopo che il delitto lo mise in fuga per il vasto mondo. E nelle vene dei figli nati dopo il do­lore di Eva, gemente sul figlio ucciso, era lo stesso sangue che bolliva in quelle del lontano Caino.

Lo stesso, e con più pura ragione, è dell’uguaglianza fra i fi­gli del Creatore. Sperduti? Sì. Esiliati? Sì. Apostati? Sì. Colpe­voli? Sì. Parlanti e credenti lingue e fedi a noi aborrite? Sì. Corrotti per unioni con pagani? Sì. Ma l’anima loro è venuta da Un solo, ed è sempre quella, anche se lacerata, sperduta, esiliata, corrotta… Anche se è oggetto di dolore al Padre Iddio, è sempre anima da Lui creata.

4I figli buoni di un Padre buonissimo devono avere senti­menti buoni. Buoni verso il Padre, buoni verso i fratelli, quali che siano divenuti, perché figli di uno Stesso. Buoni verso il Padre col cercare di consolarlo del suo dolore riportandogli i figli, che sono il suo dolore, o perché peccatori, o perché apostati, o perché pagani. Buoni verso gli stessi perché essi hanno l’anima venuta dal Padre chiusa in un corpo colpevole, brutta­ta, ebete per errata religione, ma sempre anima del Signore e uguale alla nostra.

Ricordate, o voi d’Israele, che non vi è alcuno, fosse pure l’idolatra più lontano con la sua idolatrica religione da Dio, fos­se pure il più pagano fra i pagani o il più ateo fra gli uomini, che sia assolutamente privo di una traccia della sua origine. Ricor­date, o voi che avete sbagliato staccandovi dalla giusta religio­ne, scendendo a mescolanza di sessi che la nostra religione * condanna, che anche se vi pare che tutto ciò che era Israele sia morto in voi, soffocato dall’amore per un uomo di diversa fede e di diversa razza, morto non è. Uno che vive ancora. Ed è Israele. E voi avete il dovere di soffiare su quel fuoco morente, di alimentare la scintilla che sussiste per volontà di Dio, per farla crescere al disopra dell’amore carnale. Questo cessa con la morte. Ma la vostra anima non cessa con la morte. Ricorda­telo. E voi, voi, chiunque siate, che vedete, e molte volte inorri­dite di vedere gli ibridi connubi di una figlia di Israele con uno di un’altra razza e fede, ricordate che avete l’obbligo, il dovere di aiutare caritatevolmente la sorella smarrita a ritrovare le vie del Padre.

Questa è la nuova Legge, santa e gradita al Signore: che i seguaci del Redentore redimano là ovunque è da redimere, perché Dio sorrida delle anime tornate alla Casa paterna, e perché non sia reso sterile o troppo meschino il sacrificio del Redento­re.

5Per fare fermentare molta farina, la donna di casa prende un pezzettino della pasta fatta la settimana avanti. Oh! Una briciola levata alla grande massa! E la seppellisce nel mucchio di farina, e tiene ciò al riparo dai venti ostili, nel tepore previ­dente della casa.

Fate voi così, veri seguaci del Bene, e fate voi così, creature che vi siete allontanate dal Padre e dal suo Regno. Date voi, i primi, una briciola del vostro lievito ad aggiunta e a rinforzo alle seconde, che lo uniranno alla molecola di giustizia che sussiste in esse. E voi ed esse tenete al riparo dai venti ostili del Male, nel tepore della Carità – che è, a seconda di ciò che siete, signora vostra o tenace superstite in voi, anche se ormai languente – il lievito novello. Serrate ancora le pareti della casa, della correligione, intorno a ciò che lievita nel cuore di una correligionaria smarrita, che si senta amata ancora da Israele, ancora figlia di Sionne e sorella vostra, perché fermen­tino tutte le buone volontà e venga nelle anime e per le anime, tutte, il Regno dei Cieli».

6«Ma chi è? Ma chi è?», si chiede la gente, che non sente più fretta di passare nonostante il ponte sia sgombro, né di prose­guire se lo ha superato.

«Un rabbi».

«Un rabbi d’Israele».

«Qui? Ai confini della Fenicia? È la prima volta che ciò ac­cade!».

«Eppure è così. Aser mi ha detto che è quello che dicono il Santo».

«Allora forse si rifugia fra noi perché di là lo perseguitano» .

«Sono certi rettili!».

«Bene se viene da noi! Farà prodigi…».

Intanto Gesù si è allontanato, prendendo un sentiero nei campi, e se ne va…